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Giovedi 1-Dicembre-2005
 

Palestina, essere gay a Ramallah

«Da noi è tutto molto difficile, ma io continuo a sognare»

Il conflitto in Medio Oriente A Sassari quattro giorni di confronto per iniziativa dell’Arci

SILVANA PORCU

«La cosa che mi distingue da ogni altro ragazzo gay che vive in Europa è il pensiero con cui mi sveglio la mattina, quando mi chiedo se sono ancora vivo, e se lo sono i miei familiari». Obied Allah ha 19 anni, vive a Ramallah. Palestinese e omosessuale, lotta contro religione, società e guerra. Con il «Palestinian gay outreach» sta tentando un’operazione di informazione e di aiuto «ma è tutto incredibilmente difficile». In questi giorni è a Sassari per il convegno internazionale voluto dall’Arci e dal Movimento omosessuale sardo per raccontare la realtà quotidiana del conflitto arabo-israeliano. Ma intanto si prepara per quello che sarà insieme un evento sociale e politico: la World pride parade del 2006, che ad agosto sfilerà nel centro di Gerusalemme.
- Che cosa significa essere un omosessuale in Palestina?
«Io sono sempre me stesso, con tutte le mie convinzioni e i miei ideali, ma è dura. Non si può immaginare quanto sia difficile. Vivi sotto l’occupazione, sei gay e devi affrontare il doppio delle difficoltà. Molte persone ancora si nascondono. Lo facevo anch’io fino a qualche tempo fa. Anche perché se dichiari di essere gay è quasi impossibile continuare a studiare o trovare un lavoro. Io ho mentito per anni alla mia famiglia e ai miei amici, anche quando ero diventato consapevole di essere gay».
- Come vive la religione?
«Io non sono religioso in senso stretto, ma prego Dio. E tutti i gay palestinesi che conosco pregano Dio. Ci crediamo, e sappiamo che un giorno lo incontreremo e sarà lui a giudicarci per il modo in cui abbiamo vissuto».
- Che cosa l’ha portata a dichiarare la sua identità sessuale?
«Ho preso la decisione di non nascondermi più quando ho iniziato ad andare fuori dalla Palestina, e ho visto che le altre persone nelle mie stesse condizioni non avevano paura. Ho capito che non aveva senso continuare a fingere».
- Quando sono nati i primi movimenti come “Palestinian gay outreach”?
«Il nostro è nato quattro anni fa. Lavoriamo per informare i giovani, ma anche creare questo piccolo movimento non è stato semplice».
- Lei come ha saputo dell’organizzazione?
«Attraverso il passaparola. Quando scegli di unirti a noi vieni accolto da persone che sono felici di poter essere un punto di riferimento».
- Cosa fa esattamente il «Palestinian gay outreach»?
«Lavora per dare un’occasione alle persone. Che siano gay, lesbiche, transgender, bisex o altro. Noi siamo qui per aiutarle, ed è un’esperienza meravigliosa poter dare una mano a chi ha sofferto le tue stesse paure».
- Decidere di entrare a farne parte significa subire altre discriminazioni?
«Sì. La gente non capisce la tua scelta e ti isola. Non solo non condivide il tuo modo di vivere, ma soprattutto non lo concepisce. Mi chiedono continuamente perché io abbia scelto questa strada. E quando spiego di essere gay e di essere orgoglioso di fare parte di una organizzazione che vuole tutelare le persone come me in terra palestinese, smettono di rivolgermi la parola».
- Quali sono le cose più semplici che un omosessuale occidentale può fare e che sono negate a chi vive nei territori?
«La differenza maggiore sta nel momento in cui mi sveglio, quando mi chiedo se mia madre sia ancora viva, e se io lo sarò al termine della giornata. Ma la discriminazione è quitidiana. Per strada le persone urlano il tuo nome e ti insultano. Pensano che tu non sia normale, che abbia qualche malattia grave e per questo dovresti essere in ospedale e non in giro per la città».
- Molti palestinesi gay fuggono verso la zona israeliana perché dicono che c’è più tolleranza, ma cosa c’è davvero di diverso oltre quel confine?
«Moltissimo. Ci sono spazi dove sei accolto senza nessun problema, bar per gay, ma anche palestre, hotel, pub. Posti dove puoi incontrare persone ed essere libero di esprimerti. Quando mi allontano da Ramallah e arrivo in queste zone sono davvero felice di essere me stesso».
- A parte i luoghi dove ci si incontra tra persone simili, la mentalità degli israeliani è più aperta?
«No, è un modo di pensare molto arretrato».
- Esistono forme di discriminazione anche tra gruppi di omosessuali?
«Purtroppo sì. In certi casi per farti accettare devi essere bianco, ricco, con un bel fisico. Altrimenti sei fuori».
- E cosa fa chi non risponde a questi criteri?
«Fa quella che secondo me è la fine peggiore per chi sa di essere omosessuale. Sceglie di mentire e vive da etero, sposa una donna, si crea una famiglia».
- In agosto la world Pride Parade sarà a Gerusalemme, quasi una sfida.
«Ed è proprio su questa gigantesca manifestazione che ora siamo concentrati. Sarà un grande momento, ma so già da ora che quella giornata sarà anche la cosa più pericolosa che mi capiterà nella vita».
- Secondo lei è più difficile uscire dal conflitto o cambiare la mentalità dei palestinesi?
«Sono due cose quasi impossibili. Ma non smetto di sognare».