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Palestina, essere gay a Ramallah
«Da noi è tutto molto difficile,
ma io continuo a sognare»
«La cosa che mi distingue da
ogni altro ragazzo gay che vive in Europa è il pensiero
con cui mi sveglio la mattina, quando mi chiedo se sono ancora
vivo, e se lo sono i miei familiari». Obied Allah ha 19
anni, vive a Ramallah. Palestinese e omosessuale, lotta contro
religione, società e guerra. Con il «Palestinian
gay outreach» sta tentando un’operazione di informazione
e di aiuto «ma è tutto incredibilmente difficile».
In questi giorni è a Sassari per il convegno internazionale
voluto dall’Arci e dal Movimento omosessuale sardo per raccontare
la realtà quotidiana del conflitto arabo-israeliano. Ma
intanto si prepara per quello che sarà insieme un evento
sociale e politico: la World pride parade del 2006, che ad agosto
sfilerà nel centro di Gerusalemme.
«Io sono sempre me stesso, con tutte le mie convinzioni
e i miei ideali, ma è dura. Non si può immaginare
quanto sia difficile. Vivi sotto l’occupazione, sei gay
e devi affrontare il doppio delle difficoltà. Molte persone
ancora si nascondono. Lo facevo anch’io fino a qualche tempo
fa. Anche perché se dichiari di essere gay è quasi
impossibile continuare a studiare o trovare un lavoro. Io ho mentito
per anni alla mia famiglia e ai miei amici, anche quando ero diventato
consapevole di essere gay».
«Io non sono religioso in senso stretto, ma prego Dio. E
tutti i gay palestinesi che conosco pregano Dio. Ci crediamo,
e sappiamo che un giorno lo incontreremo e sarà lui a giudicarci
per il modo in cui abbiamo vissuto».
«Ho preso la decisione di non nascondermi più quando
ho iniziato ad andare fuori dalla Palestina, e ho visto che le
altre persone nelle mie stesse condizioni non avevano paura. Ho
capito che non aveva senso continuare a fingere».
«Il nostro è nato quattro anni fa. Lavoriamo per
informare i giovani, ma anche creare questo piccolo movimento
non è stato semplice».
«Attraverso il passaparola. Quando scegli di unirti a noi
vieni accolto da persone che sono felici di poter essere un punto
di riferimento».
«Lavora per dare un’occasione alle persone. Che siano
gay, lesbiche, transgender, bisex o altro. Noi siamo qui per aiutarle,
ed è un’esperienza meravigliosa poter dare una mano
a chi ha sofferto le tue stesse paure».
«Sì. La gente non capisce la tua scelta e ti isola.
Non solo non condivide il tuo modo di vivere, ma soprattutto non
lo concepisce. Mi chiedono continuamente perché io abbia
scelto questa strada. E quando spiego di essere gay e di essere
orgoglioso di fare parte di una organizzazione che vuole tutelare
le persone come me in terra palestinese, smettono di rivolgermi
la parola».
«La differenza maggiore sta nel momento in cui mi sveglio,
quando mi chiedo se mia madre sia ancora viva, e se io lo sarò
al termine della giornata. Ma la discriminazione è quitidiana.
Per strada le persone urlano il tuo nome e ti insultano. Pensano
che tu non sia normale, che abbia qualche malattia grave e per
questo dovresti essere in ospedale e non in giro per la città».
«Moltissimo. Ci sono spazi dove sei accolto senza nessun
problema, bar per gay, ma anche palestre, hotel, pub. Posti dove
puoi incontrare persone ed essere libero di esprimerti. Quando
mi allontano da Ramallah e arrivo in queste zone sono davvero
felice di essere me stesso».
«No, è un modo di pensare molto arretrato».
«Purtroppo sì. In certi casi per farti accettare
devi essere bianco, ricco, con un bel fisico. Altrimenti sei fuori».
«Fa quella che secondo me è la fine peggiore per
chi sa di essere omosessuale. Sceglie di mentire e vive da etero,
sposa una donna, si crea una famiglia».
«Ed è proprio su questa gigantesca manifestazione
che ora siamo concentrati. Sarà un grande momento, ma so
già da ora che quella giornata sarà anche la cosa
più pericolosa che mi capiterà nella vita».
«Sono due cose quasi impossibili. Ma non smetto di sognare».
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